Cosa significa davvero la parola comunicare? Perché ci fanno credere che voglia dire altro?
Abusi di parole, violenze, stupri semantici e armi di comunicazione di massa ci trasformano in individui isolati e sedati. Come si fa a scendere?

Da chiarire fin d’ora, scriverò moltissimo di etimologia. Cercherò di giocare con le parole e di esasperarne le interpretazioni, al confine tra psicologia e linguistica, con l’obiettivo di dimostrarne la noia, ma anche l’importanza. Nelle parole c’è tutto, dobbiamo solo imparare ad “osservare”, come scriveva Emily Dickinson:
“Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”.
Dalla notte dei tempi, l’essere umano ha sempre avuto l’istinto primordiale ad affrontare un problema di qualsiasi natura cercando conforto nelle parole. Gli esempi sono innumerevoli: ognuno di noi quando cerca “una parola amica” o quando ascolta una canzone (espressione massima della parola in quanto forma di significato in armonia+melodia), oppure legge un libro per cercare risposte o, più frequente, aspetta la preview di un messaggio fare luce sulla forza oscura dell’IPhone. Si pensi alle parole più o meno pericolosamente in grado di muovere le masse (“vincere e vinceremo! Mussolini”, “I have a dream. M.L.King”, “Il silenzio fa rumore quando è il cuore a parlare". Fedez) e ancora si pensi al fedele che cerca conforto (“prega per noi”) o il paradiso di figa promessa (“Allah Akbar) nelle Sacre Scritture. . Potremmo proseguire all’infinito, per poi renderci conto soltanto che in ogni ambito della nostra vita, in qualsiasi momento e stato d’animo, siamo circondati da parole. E continuiamo a tornarci sopra perché, volenti o nolenti, hanno quella cosa chiamata significato e dunque ci significano. E la vita che ci hanno insegnato d’altra parte non e’ forse una continua e romantico-patetica ricerca di significato?
La parola come unità linguistica di unione tra significante (la sua forma) e significato (la sua sostanza) trova radice nei principi primi: cosa vuol dire? Cosa sono questi principi primi? E chi se ne frega?
Se qualcuno dovesse aver alzato la mano all’ultima domanda, gli si rende necessaria una chiave di lettura, una mappa che gli consenta di guardare alla parola come l’ultima unità inscindibile, l’atomo di ogni significato. Tralasciando il punto di vista “tecnico” e noioso della sua composizione, del suo significante e del suo formarsi, concentriamoci sul potere magico d’isola parola: trasmettere.
Primo esercizio: abbiamo scritto “trasmettere” e non “comunicare”. Perché?
Prendiamo Treccani, opera che grazie a Dio è stata digitalizzata da quello che è senza dubbio un martire o un gruppo di martiri:
trasméttere v. tr. [dal lat. transmittere, comp. di trans- «trans-» e mittere «mandare», rifatto su mettere]
Nella sua accezione prima:
Trasferire, far passare quanto è in sé, o è proprio, su uno o più altri soggetti o enti, corpi o elementi: t. un bene, un diritto a terzi;t. i caratteri ereditarî, dai genitori ai figli; t. una malattia, un’infezione, il contagio, riferito, come soggetto, sia alla persona che ne è affetta o portatrice (è una malattia ereditaria, e i genitori possono trasmetterla ai figli), sia all’organismo trasmettitore (la mosca tse-tse trasmette il tripanosoma che determina la malattia del sonno, o trasmette la malattia del sonno); t. energia, in fisica e nella tecnica, e t. energia elettrica, t. il calore; t. il moto, in meccanica, riferito a organi di macchine (chiamati appunto organi di trasmissione): l’apparato che trasmette il movimento dai motori alle eliche. Con il si passivante, o nel passivo, passare a uno o più altri soggetti o enti, corpi o elementi: usanze che si trasmettono di generazione in generazione; diritti che si possono, o non si possono, trasmettere; una malattia che si trasmette o viene trasmessa per contagio; il calore può trasmettersi o viene trasmesso per conduzione, convezione o irraggiamento; la leucemia non si trasmette da persona a persona[1].
comunicare v. tr. e intr. [dal lat. communicare, der. di communis «comune1»; nel sign. 3, dal lat. eccles. communicare (altari) «partecipare all’altare», cioè «alla mensa eucaristica»]
Nella sua accezione prima:
Rendere comune, far conoscere, far sapere; per lo più di cose non materiali: c. pensieri, idee, sentimenti; c. la propria scienza; c. il coraggio, il timore; riuscì a comunicarmi la sua ansia. Per estens., dire qualcosa, confidare: c. una notizia, un segreto; mi hanno comunicato la data del matrimonio; e con valore reciproco: comunicarsi le proprie impressioni. Quindi anche divulgare, rendere noto ai più: c. un avviso, un annuncio; la televisione ha comunicato la notizia.[2]
Risulta subito evidente la natura meno “pretenziosa” e di stampo decisamente più pragmatico azione-conseguenza di “trasmettere, mandare attraverso”. Una volta inserita, la marcia del trasmettere si mette in moto come un cambio automatico, senza implicare alcun desiderio, volontà e/o necessità dell’ente-ricevente. È un procedimento semplice ed efficace, quasi primordiale (vedi “trasmissione ereditaria”), tanto efficace da potersi realizzare nella sua massima espressione ignorando non solo la volontà, ma anche la stessa esistenza del destinatario. Sono le malattie che si trasmettono, senza chiedere il permesso: “Desidera del COVID-19?”.
“Trasmettere” non ascolta, non si ferma, è violenza, è biomeccanica. Trasmettere è uno stupro.
“Comunicare” (bellissima l’etimologia dal latino ecclesiastico “partecipare all’altare”, quando ancora sull’altare non ci avevano sdraiati) implica invece una partecipazione attiva e la chiara intenzione di “far conoscere”. “Comunicare” non può esistere senza due elementi chiave: un obiettivo a monte, e un ente-ricevente più o meno tangibile (tua moglie/marito, una pianta o Gesù Cristo). “Comunicare” è un po’ da sboroni. Qui la marcia deve essere inserita manualmente, con consapevolezza. Se non apriamo la bocca, non muoviamo gli occhi, non tocchiamo con le mani e restiamo soli avvolti da un silenzioso buio in assenza di gravità, la comunicazione cessa di esistere. Mentre siam sempre più maestri nell’arte di distruzione di massa di comunicare senza senso, senza sensi non potrà mai esistere comunicazione. Senza un ente-ricevente, un “altro da noi” (alter), la comunicazione si svuota del suo significato e si fa in-utile, retrocedendo a meccanica “emissione”, una sorta di rigurgito.
“Comunicare” è una parola pura dal punto di vista della sua democrazia. È un atto (actio) di equilibrio-efficacia tra dare e avere. Per questo l’ente-ricevente ha un’importanza uguale e speculare rispetto al mittente. Se tra i due s’instaura il giusto flusso naturale dell’actio, allora la comunicazione “funziona” e genera “comprensione” (“prendere insieme”, “abbracciare con la mente le idee”). Senza “insieme”, ancora una volta, non può esserci nulla. Qui la difficoltà e, spesso, la tragedia: l’ente-ricevente, attivo e partecipe alla pari, può decodificare in maniera differente (e da qui l’in-comprensione) o addirittura scegliere di non decodificare (e quindi di ignorare = non conoscere) con conseguenze catastrofiche.
Se trasmettere è uno stupro, l’etimologia ci ricorda che comunicare è un coito.
Ma allora siamo sicuri di vivere in quella che ci è stata venduta come “l’era della comunicazione”?
Ci sentiamo realmente così cum-presi, o ci svegliamo sempre più spesso stuprati dal gigante dildo del non voler conoscere?
Perché io, la mattina, mi sveglio sempre più spesso con la rabbia-vergogna dell’impotente, e le rare volte che mi alzo invece con la liberatoria gioia post-coito, in qualche modo, mi sento in colpa.