
E’ trascorso un mese dalla nostra partenza in Pandamia.
Il viaggio (ogni viaggio?) si è rapidamente trasformato in un esperimento sociale profondo ma denso, di conseguenza impossibile da osservare “tra”.
Ogni tappa è uno strato, ogni spostamento un cerchio nel tronco che copre il “prima”, ma rinforza e prepara lo spazio necessario al “dopo”. Per poterne vedere una sezione andrebbe tagliato o spaccato con la dinamite, ma così diventerebbe un pezzo di vuoto passato, un crudele atto mummificatore di una potenza; sarebbe l’ennesimo inefficace tentativo di eternizzare il “poi”.
Da dove sono arrivato vedo in sostanza solamente ciò che ho, ovvero lo strato su cui poggio.
La “paesologia” (come la definisce Franco Arminio) di questa Italia è intatta ma non intonsa. Il mio desiderio di viandare alla scoperta (o a caccia) di un risveglio della (in)coscienza post-pandemica non si appaga, ma ingrassa di regione in regione, tanto da essere quasi indigesto.
Dopo trenta giorni di viaggio, la mia prima teoria invera la mia previsione (speranza) dell’anno scorso: il lockdown non ci ha cambiati.
In questi mesi, come tanti, ho voluto credere nell’arrivo di un nuovo rinascimento in senso stretto, ma in realtà le recenti prove inconfutabili mi dimostrano che la pandemia non ha funzionato da reset, ma soltanto da stop&play. Un po’ come quando riceviamo una telefonata sul Bluetooth della macchina che interrompe la canzone trasmessa in radio. Quando riattacchiamo è evidente che abbiamo perso un passaggio, ma in qualche modo ci risintonizziamo e andiamo avanti.
L’esser stati distratti non ci rende persone diverse.
Allo stesso modo il grande diversivo COVID non ci ha resi niente di più e niente di meno. Possiamo piuttosto dire di esserci ritrovati in ritardo su una melodia mondiale che ha continuato a suonare mentre noi si era impegnati a difenderci dal distanziamento sociale a gomitate.
Ci si è trovati più soli, più felici, più poveri o più egoisti, ma fondamentalmente ci si è soltanto riconosciuti.
Per la prima volta fuori-tempo dalle nostre vite dettate in 4/4 ora facciamo fatica a recuperare quel ritmo che di per sé non è mai stato nostro. E il direttore d’orchestra ci guarda storto, il compositore ci rimprovera, perché noi, ancora una volta, stoniamo.
Ecco, l’Italia che ho incontrato per le strade in questo mese è stonata, talmente stonata però che sembra ribaltare la situazione e costruire una nuova orchestra senza ritmo.
È un Italia che in 15 mesi di aneurisma antropologico schiaccia “play” ma riparte lenta, analogica, non per forza pensante e consapevole, ma senza dubbio concentrata come il bambino quando realizza il rischio di cadere correndo troppo forte.
Non tanto perché riscopra la conquista della libertà di muoversi tra comuni o di rincasare dopo le 22.00, ma perché capisce che, seppur stonando, è in grado di produrre musica.
E il direttore? Il compositore?
In 15 mesi di assenza (se non totale incompetenza) di ogni istituzione, di vergognosa fuga di qualsivoglia rimasuglio di Stato Sociale, di stufe e camini accesi con la carta straccia della Costituzione, i direttori e i compositori hanno continuato a battere la bacchetta in 4/4 e a dirigere una sinfonia senza orchestra. Ma senza far suonare.
Quando uno Stato (o meglio stato) decide di fare credito (elemosina con interessi) alla propria gente invece di prestare soccorso, diventa una banca. Quando questo credito è già a sua volta debito, allora diventa un criminale. E i criminali non vanno seguiti, anzi, van tolte loro le bacchette che non son più usate per dirigere (tendere verso) ma per dirottare (allontanare da).
La tentata (e fallita) distruzione dell’ensemble costituirà l’articolo 1 della Nuova Costituente.
E quando dai pulpiti su Zoom i direttori fiuteranno la perdita di ogni interesse nei confronti di un sermone-video-call vecchio e impotente come loro, allora, ancor più obsoleti e prevedibili, si rifugeranno nelle denunce di complottismo e grideranno all’eresia: colpe, condanne, roghi e tribunali a forma di fiore senza (contro) legge verranno istituiti nelle piazze di ogni città per inocularci la redenzione con tanto di richiamo. Lo stato militare garantirà l’efficienza dell’inquisizione e assolverà ogni peccato in open day.
Marchieranno i salvati così da poter identificare i sommersi e farli emergere nella vergogna di un “vietato l’ingresso senza greenpass” sull’uscio di qualche teatro o di qualche RSA. Lo sdegno degli immuni: “che poco senso civico”.
Non serviranno nemmeno i lager, perché ci hanno insegnato a stare chiusi in casa. Un regime globalizzato è un regime efficiente, che risparmia.
Sembra una storia già sentita?
Per questo la mia prima teoria conclude che restiamo uguali. Ma non è una conclusione disfattista, anzi, restaura le esistenti fondamenta di speranza mangiate dai tarli della storia: essere uguali consente e giustifica l’esistenza dei diversi. L’eccezione a conferma della regola.
Quindi per fortuna la pandemia (e ogni altro accaduto storico fino ad oggi) non ci ha cambiati. L’essere umano non cambia, rievolve.
E anche oggi, nel 2021, cercheremo ancora una volta di battere il nostro tempo sul pentagramma, con una musica diversa. Anche questa volta, probabilmente, falliremo nell’azione ma non nell’intento.
Quando ho scelto l’appellativo “Il Vertebrato Ragionevole” l’ho fatto appropriandomi di un’espressione di Italo Calvino presa da “Il Barone Rampante”, romanzo precursore della disobbedienza civile (poi radical-chic) e allo stesso tempo spina dorsale del “riEvoluzionismo”. Rifiutare il circostante (e non banalmente rinnegarlo) per scegliere di vivere sugli alberi non ci rende tanti piccoli San Francesco e nemmeno tanti grandi vegan-hippies-controtutto.
Ogni movimento mosso da ragione ci conferma semplicemente nella nostra natura, perché ragionare (non necessariamente “bene”) è l’istinto primordiale della specie animale-uomo che siamo.
È l’elemento differenza che ci rende uguali.