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"Kaputt" C. Malaparte

Aggiornamento: 13 mag 2021

“Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi tempi di guerra” (p.14) [1]


[1] Tutte le citazioni fanno fede e riferimento a C. Malaparte, Kaputt (Gli Adelphi, 2019)



Sono queste le parole con le quali Malaparte ci introduce al suo “reportage” di un primordiale viaggio “interrail” attraverso l’Europa, dove la seconda guerra mondiale non è la protagonista ma scorre al finestrino e ci accompagna, “in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio” (p.14)

Un Viaggio al Termine della Notte all’italiana che, però, nella Carelia di Malaparte esaspera (e si esaspera) senza terminare mai, quasi fosse un contrappasso naturale al fallimentare mito nazista del blitzkrieg, o guerra lampo.


Un’opera realista e, senza dubbio, dalle forti tinte espressioniste, ma vietato dimenticare che non ci troviamo di fronte a un libro “sulla guerra“ e, forse, come già percepiamo dalle prime pagine, nemmeno di fronte a un libro tanto crudele. Ci appare piuttosto come

“una storia gentile” proprio perché “ciò che la guerra ha di più orrendo è proprio quel che ha di gentile” (p.277)

Forse nella sua introduzione l’autore ha voluto depistarci? Forse ha voluto esagerare e crearci delle attese? Quel che risulta evidente è che l’opera che stiamo leggendo ci assorbe in tutti (e cinque) i sensi sin dalle prime battute attraverso una narrazione palpabile, dove i sorprendenti giochi di sinestesie si alternano a un susseguirsi d’iterazioni estremamente efficaci che ci inchiodano al hic et nunc della vicenda; una vicenda troppo densa per dare rilievo a una trama.


Inizialmente in maniera quasi fastidiosa (o forse semplicemente faticosa), e poi magistrale senza forzature, l’utilizzo dell’iterazione riproduce una meccanica da catena di montaggio e non consente distrazioni, quasi Malaparte ci volesse sempre tutti al suo fianco, con i piedi nella neve in Finlandia o al banchetto di un qualche ambasciatore, senza permetterci un solo istante di abbassare lo sguardo. Una scrittura-paraocchi che forza la nostra attenzione su una guerra anch’essa dal sapore meccanico, proprio perché fatta di macchine e ferraglia e che, con triste rammarico dell’autore, non ha più nulla in comune con la guerra fatta di uomini: una guerra automatica che si combatte per paura e senza pensare, dove la pietà o il senso di patria (o della vita?) si possono ormai ritrovare soltanto “nell’odore antico della cavalla morta”.


Ma anche una scrittura che ci inzuppa in uno strano amalgama di situazioni grottesche, tra soldati suicidi nel buio della Finlandia e “party” selvaggi in qualche bosco sconosciuto, dove Himmler, come in una giornata di Pasolini, si fa frustare nudo in sauna circondato da soldati ubriachi che giocano al torero. Un “quadro di tenebra” dal sapore Conradiano dove, a un primo sguardo, sembrerebbe la natura a giocare il ruolo del “selvaggio tagliateste”, ma aguzzando la vista notiamo subito che la vera darkness di cui Malaparte si fa ambasciatore è proprio quella della guerra che investe gli uomini e li trasforma:

“Ma qualcosa di meraviglioso, qualcosa di puro e d’innocente era in loro, […], simile all’innocenza delle bestie e dei bambini” (p.363)

E mentre il mondo impazzisce, un personaggio come Dietl manifesta la tranquilla pace del Colonnello Kurtz, frammisto al savoir faire di un primitivo Mr Gatsby: “lasciamoli divertire un po’, quei ragazzi” (p.358).


Paura, Pietà, Puzza: tre sono le parole essenziali che ritornano e si avvinghiano senza sosta all’interno di Kaputt, in una spirale dall’evidente sapore dantesco che anticipa quella che sarà la Napoli-malabolgia di “La Pelle” qualche anno più tardi.


Tre “P” che accomunano l’uomo e l’animale, mettendoli sullo stesso piano di istinto-sensazione-istinto, che è poi il piano stesso su cui deve poggiare ogni guerra per restare in piedi.


Con un occhio socchiuso a D’Annunzio (soprattutto negli aggettivi e nell’importanza riservata alla lingua, in certe occasioni addirittura vero e proprio casus belli - si pensi alle incomprensioni generate dal dialogo tra Mussolini e Lord Perth, al termine del quale si conclude che “le guerre sono errori di sintassi” p385.387) e un occhio decisamente più aperto a quello che poi si evolverà nel neorealismo del dopoguerra (in modo particolare se guardiamo all’impegno attivo-attivista dell’autore e al suo mondo di castelli crollati) Malaparte si muove (ma soprattutto scrive) nel ruolo di giornalista-inviato-007 tra il fronte e i salotti chic di un’Europa vuota e moribonda, paurosamente attuale, dove già allora

“una buca di golf ha disgraziatamente la stessa importanza di una cattedrale gotica” (p.208)

Coinvolgendo e raccontando di personaggi storici realmente esistiti e vissuti in prima persona, la narrazione non può che risultarci intrigante come una Novella 2000, dove non ci basta la storia (o meglio non ci interessa), ma vogliamo vedere che “il re (come Himmler) è nudo”.


Altrettanto coinvolgente risulta essere quell’atmosfera generale di favola noir, dove spesso e volentieri animali, piante e oggetti si fanno personaggi in fabula. In linea con la moda espressionista di antropomorfizzare il mondo, gli animali prima di tutto (già dai titoli delle sezioni dell’opera) si impongono come elementi essenziali e ricorrenti: negli habitat naturali, nelle scene più “ufficiali” di vita quotidiana, morti sull’uscio di un’ambasciata, sui campi di battaglia, fino ad arrivare serviti sui vassoi d’argento in veste di vere e proprie vittime (Kaputt – Kapparoth) sacrificali offerte a un impotente Dio dell’Abbondanza. Divertente è senza dubbio la lettura prettamente enogastronomica che, attraverso questi vassoi, sembra spesso descrivere una scena o un’intera nazione, quasi il piatto ne fosse portavoce ufficiale. Forse che Kaputt possa diventare una moderna serie televisiva modaiolo-gourmet del tipo “Sapori dal fronte. Viaggio tra le trincee del gusto”?


Fuori dai piatti invece, non di rado l’animale viene umanizzato in maniera magica ed estrema, a tratti grottesca, trasformandosi in invisibile commensale o addirittura in messaggero-medium di un qualcosa non esprimibile altrimenti:

“nessuna umana voce dolente eguaglia nella espressione del dolore quella dei cani” (p.259)

Dovessimo fare di Kaputt un film, servirebbero almeno tutte e sei le mani di Guillermo del Toro, Paolo Sorrentino e Luis Bunuel.


E allo stesso modo le piante, le stoviglie, l’arredamento di una biblioteca si staccano dalla consueta parete scenografica e diventano in qualche maniera esseri viventi. L’intera scena, snaturata della sua consueta funzione di sfondo, si anima di fronte a tutta la guerra (e a tutta la vita) che la circondano, in paradossale contrasto con l’uomo che continua invece a svuotarsi fino alla morte senza possibilità di salvezza.


Morte che in una guerra reclama la sua parte, ma che l’autore tratta senza troppa tragedia e senza eccessi di lirica (forse troppo facile in termini letterari, ma soprattutto troppo lontano dal vero di una guerra). In Kaputt la morte scorre soprattutto tra una riga e l’altra, senza crear scandalo o scalpore. A stupirci non saranno colpi di scena o pagine d’inutile crudeltà, ma saranno piuttosto le innumerevoli occasioni in cui spesso e volentieri sono i morti a sembrarci più vivi dei vivi stessi: nel ghetto di Varsavia, riversati da un vagone di un treno o negli spettri delle biblioteche di ghiaccio del Nord Europa (Malaparte racconterà di andare addirittura a visitare uno spettro volontariamente). E risultano vivi di una vita incontrollabile, perché “i morti sono matti”, al contrario degli uomini vivi per davvero che sembrano zombie storditi o statue di gesso avvolte dalla luce del nord che “brucia ogni segno di vita, ogni parvenza d’umanità. Dona all’uomo l’aspetto della morte” (p.341).


Sembra in queste parole di ritrovare Gogol’ e le sue “anime morte” sparpagliate attraverso l’infinità della steppa russa di fine ottocento (o i white walkers di Game of Thrones), con la sola differenza che in Kaputt il naturalismo lascia spazio a un moto espressivo di rara efficacia.


Un’ulteriore chiave di lettura tanto attuale quanto divertente è quella geopolitica/profetica, attraverso la quale è spaventoso riconoscere il ritratto di un’Europa, ma soprattutto di un’Italia, molto vicine ai giorni nostri. Nonostante le vicende biografiche che lo vedranno letteralmente muoversi da un estremo politico all’altro, Malaparte resta senza dubbio un vero italiano nel senso romantico (e intramontabile) di adolescente innamorato consapevole seppur privo di speranza. Siamo in una fase di patriottismo decadente, causata in primis da una guerra esasperante, dove

“non esisteva nulla, ormai, fuorché la tetra, buia, crudele, orgogliosa, disperata Germania. Non esisteva più nulla ormai: macchè Italia!” (p.317)

In un ritratto dai colori decisamente contemporanei spesso all’autore non “resta che applaudire” al bel paese che “non serve a niente, che sia soltanto bello” se poi “tutti fanno la puttana. Il Papa, il Re, Mussolini, i nostri amati Principi, i cardinali, i generali, tutti fanno la puttana, in Italia”. E non si tratta di disfattismo, ma soltanto di mera consapevolezza con relativo rammarico, a tratti celato da quell’italianissima ombra di autoironia che ci rende più o meno consciamente fieri davanti a uno de tanti resoconti da bunga-bunga:

“La politica romana […] è fatta da quattro o cinque beaux garçons indaffarati a scambiarsi fra loro trenta fra le più stupide donne di Roma, sempre le stesse” (p.306). Suona forse famigliare?

CI affascina notare come, nonostante la guerra, all’interno di Kaputt manchino eroi, o per lo meno nel senso pienamente romantico del termine, poiché potremmo quasi affermare che, al contrario l’opera pulluli di eroi tanto genuini da risultare invisibili. Caratteristica quella dell’eroismo quotidiano che vale ancor di più per le figure femminili (si pensi ad esempio alla Principessa Hoenzollern), svuotate di ogni forma angelico-petrarchesca e allo stesso tempo del tutto sprovviste del fascino della femme fatale, le quali ci si presentano orgogliose ed eleganti nonostante le unghie sporche o le nobili mani rovinate dal lavoro in fabbrica. Eroine di quella che sembrano percepire sì come una guerra (quella vera di chi sta a casa ad aspettare e ne patisce le stesse pene, o di chi invece si consuma nello sforzo di pretendere che la guerra non esista - e provateci voi se ci riuscite!) ma di una guerra che non turberà né i loro salotti, né la loro natura di esseri eterni, delicati e indistruttibili. Non si tratta di un eroismo d’inettitudine, o di un lamentoso soffrire, né tantomeno di un codardo nascondersi, ma si tratta solo di un uscire in carrozza ogni mattina a fare la spesa. La figura della donna non è in primo piano all’interno di Kaputt, non tanto quanto lo sarà nella Napoli appestata de La Pelle, ma è indubbiamente incisiva, proprio nel senso in cui a fine lettura ci lascia una sorta di graffio, un morso, o un succhiotto nascosto da qualche parte.


Tra le pagine di questo magnifico reportage dal fronte non potevano certo mancare Dio e la religione. In un mondo annichilito da un conflitto senza fine del quale sembrano ormai perdute anche le coordinate ideologiche che lo hanno indirizzato, in un pianeta dove il Capitale ha la meglio sul Vangelo, Cristo diventa palpabile e

“ognuno di noi può salvare il mondo. Non è poi molto difficile esser Cristo, oggi” (p.297)

Difficile comprendere se questo materializzarsi di Cristo sulla terra sia per Malaparte una forma di evasione o un’escatologia disperata o semplicemente una sensazione, ma sembra evidente che la salvezza (conseguenza diretta di sofferenza-pietà) si trovi nella natura incontaminata dei boschi e delle bestie: “Le bestie sono Cristo, penso, e mi tremano le labbra, le mani mi tremano” (p.350). Abbiamo già visto l’importanza del regno animale, il quale nell’arco della narrazione diventa sempre più forte fino a diventare un tutto che ci avvolge: “si quietavano, come se trovassero compenso alle umiliazioni e alle sofferenze della schiavitù nello spettacolo della pace e della libertà della natura” (p.137).


L’uomo dunque che s’immerge nell’elemento naturale respira in Kaputt come un cavallo, soffia dal naso come una renna, e puzza (ancora una volta) di quel vitalismo tipico del D’Annunzio poeta, dal quale però scortica la funzione estetica e prepara un lieto fine surrogato dalle tinte pirandelliane ma servito “al sangue”. Come al sangue sono le storie cristiane che Louise (p.277) non sa se sia il caso di raccontare alla Hohenzollern, poiché forse troppo cruente (anche se appunto cristiane). Ancora una volta dunque “un libro crudele”, ma dove la crudeltà passa in secondo piano se messa di fronte all’elemento naturale, sempre fermo e immutabile, di fronte a un uomo come di fronte a un carro armato, e dunque escatologia e rifugio in quella che nell’opera si dipinge a tratti come una vera e propria metafisica naturale o, se vogliamo, un culto pagano.


Un’opera che termina in una Napoli libera ma non liberata (una Gerusalemme Conquistata e non Liberata?), simbolo di una guerra che, come tutte, non ha ottenuto altri risultati se non quello di creare vinti e vincitori per poi giocare sadicamente a confonderli. E forse non a caso Malaparte chiude la sua opera-documentario “nella più infelice, affamata, umiliata, abbandonata, torturata città d’Europa” (p 421), proprio in quella Napoli che sarà protagonista assoluta nel suo successivo capolavoro, quando la liberazione verrà descritta (e vissuta anche dal lettore) come una peste devastante e silenziosa.


Ma allora chi ha vinto? Oggi cosa è cambiato?


Chi ha ragione: i bambini della Colonna terrorizzati dagli uccelli perché convinti che siano caccia-bombardieri, o i bambini napoletani che aspettano con impazienza le incursioni aeree convinti che dal cielo piovano regali?


Ma poi, c’è davvero della ragione in una guerra?


Ci restano soltanto domande: l’unico vero tesoro che sempre ci attenderà al termine di un’opera letteraria degna di essere definita tale.

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