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Chiusa una porta, si apre una portiera.



Partiamo male.

L'11 maggio verso le 18, a 4 giorni dalla nostra partenza, torno a casa dopo aver recuperato la torta di compleanno di Olga. Sembra una storia qualunque, ma solo per chi non abbia cognizione di cosa significhi "LA torta di compleanno" per Olga. L'anno scorso ha sbagliato la pasticceria e ce ne siamo accorti troppo tardi, il 12 mattina a colazione (sacro giorno del compleanno), quando l'abbiamo aperta. Quest'anno, forte dell'esperienza, prima del ritiro ho investigato l'opera pasticcera neanche fossi Massari: pan di spagna (c'è!), crema chantilly rigorosamente senza alcol (c'è), frutta fresca meglio se di bosco (c'è!). Ok, acquisto.

"Mi scusi, gliela metto in una confezione un po' più grande così non si schiaccia". La premura della ragazza al banco mi commuove. Mi domando se sia in contatto con Olga attraverso un qualche auricolare invisibile.

Forse sono microfonato?

"Tenga una mano sotto, mi raccomando". Trasporto il pacco come si trattasse di uranio impoverito e lo adagio sul sedile del passeggero, non prima di averne calmierato la pendenza in previsione del tracciato pasticceria-casa. Devo anche tenere conto dell'aderenza gomme e della velocità media in condizioni di traffico ottimali nonostante siano le 17.45. Fuori piove, ma io non ho paura e raggiungo fiero la destinazione. Parcheggio e impugno l'ombrello, un sacchetto della spesa, le chiavi di casa e soprattutto la torta. Sono ormai di fronte all'uscio quando penso che sia incredibile come un piccolo ammasso di panna possa restare tanto immobile in una scatola cosi grande e leggera. Tra l'altro troppo leggera per il prezzo pagato. Lo muovo come per testarlo "tanto ho la mano sotto", penso. Quando Olga apre la porta la torta è un rigurgito oleoso addobbato con dei mirtilli. E' incredibilmente rimasto all'interno di quella confezione megagalattica e io ho salvato l'ombrello.

Nonostante la tragedia (recidiva dopo l'anno passato), Olga cerca di non abbandonarsi al facile panico da presagio di sventura. Prende delle fragole dal frigo e ricostruisce una sorta di Frankenstein alla crema.

"Alla fine it's our life. Everything is fucked up, but we can fix it" dice.

Vorrei tanto lo capisse anche mia mamma. Per fortuna dal giorno in cui abbiamo deciso di partire al giorno della partenza trascorreranno solo 12 giorni (in realtà per lei 9 poiché i primi 3 sono riuscito nella mia omertà). Non penso riuscirebbe a reggere più di così.

Io gliel'ho detto che non sto scappando di casa e le ho spiegato il mio progetto nel migliore dei modi, ma le orecchie di mamma sono scudi impugnati dal cuore. Niente da fare. E sì che l'unica volta che "scappai" di casa a 15 anni a causa di un postumo da whiskey mal gestito, arrivai a fare circa 600 metri per poi dover tornare a prendere la benzina. Lo sanno tutti che, anche volendo, scappare non fa per me, o io non faccio per lui.

Poi arriva la notte prima di ogni partenza, e tu sei piccolo. Tutte le certezze collassano. Tutti ti invidiano ma nessuno è davvero te. Ti guardi intorno, guardi la tua casa e ti sembra poco più di una discarica.

Quella stessa casa fino a quel momento è stato tutto per te: il tuo rifugio, il luogo dove sei qualcuno, una scatola per l’Io. Persino un luogo da cui poter scappare.

La notte prima di una partenza tutto questo non c’è più, perché partire è un'apnea.

Si dice che partire sia un po’ come morire: è vero, perché partire racchiude in sé un elisir di eternità. Un movimento da qui a là, da tutto a niente, da niente a tutto. Un movimento centripeto senza cerchio e senza centro.

La torta alla fine era buonissima e oggi poco importa in realtà cosa ci sia nel futuro, perché nel presente di domani c’è soltanto partire.

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